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"Perche' Gnicche? Perché è sempre stato il mio soprannome!"
Certo un personaggio assolutamente discutibile, ma da alcuni lati affascinante come tutti i banditi di fine '800: la libertà, l'indipendenza e la ricchezza di chi riesce a stare bene da solo con se stesso. Forse per un desiderio di selvaggia autonomia e per la sensazione di avere sempre nel naso l'odore dei campi e della terra dopo che ha piovuto...
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Il brigantaggio nella Toscana contadina del 1800 fu un brigantaggio minore che non ebbe le connotazioni di lotta sociale come quello del mezzogiorno e non divenne mai un banditismo idealizzato.
Ma anche qui, le condizioni sociali di indigenza e ignoranza, portarono tanta gente, anche se per cause diverse, alla latitanza.

In questi luoghi il brigantaggio rispecchiò quindi l'individualismo tipico della gente della Toscana interna, i personaggi furono feroci e vendicativi, solitari e spavaldi senza scrupoli, sebbene con un proprio codice d'onore.
Domenico Tiburzi detto "Il re di Montauto" e poi Enrico Stoppa detto "Lo Sparviere", in Maremma; Raffaello Conti detto "Sagresto lo spauracchio d'Anghiari", in Val Tiberina; e poi, sconfinando in Romagna Stefano Pelloni detto "Il Passator cortese", <Re della strada e della foresta> come canta il Pascoli, sono alcuni dei briganti più noti che operavano tra lo Stato Pontificio e il Granducato di Toscana.

Anche nelle campagne dell'aretino, il brigante Gnicche era fino a non molti decenni fa figura popolarissima e le sue gesta si sentivano cantare da qualche popolano e dai contadini mentre attendevano alla cura dei campi.
Le nuove generazioni poco o nulla sanno di questo personaggio che insieme a tanti altri fa parte della più schietta tradizione popolare e contadina dell'aretino.

Per la storia, Federigo Bobini detto Gnicche nacque ad Arezzo nel Borgo di Santa Croce il 13 giugno 1845 da Sebastiano e Domenica, oneste persone abituate al lavoro duro e che non avevano tanto tempo da dedicare al loro figlio, al quale comunque avevano provato ad impartire una buona educazione. Ma non riuscirono nel loro intento, anzi Federigo li portò alla disperazione. Un giorno egli rubò dei soldi al padre e così Sebastiano lo denunciò alla polizia. Gnicche fuggì attraverso la campagna con alcuni amici e formò con essi una banda: il più famoso tra i suoi amici era Gigetto di Città di Castello, che veniva da tutti chiamato "Ghiora", "il terribile" e "il Menchiari".
Cominciò così a rubare e a fare violenze nei vari paesi aretini.



A tre anni di distanza dal primo censimento della popolazione del regno, ossia nel 1864, Federigo Bobini aveva quindi già problemi con la giustizia, in quanto dovette subire una breve condanna dal Tribunale di Prima Istanza di Arezzo in seguito ad una violenta lite familiare; da sottolineare che frequentò per la prima volta le aule di tribunale all’età, assai bassa, di 19 anni. Il 3 marzo 1865 venne nuovamente condannato per furto; gli sarebbe spettata una piccola pena che diventò tuttavia di alcuni mesi a causa della recidività. Scontato tale periodo di carcerazione, Gnicche caratterizzò i sei anni successivi conducendo una vita all’insegna della violenza, frequentando il furto come fonte di sostentamento e, soprattutto, frequentando con freddezza l’omicidio, numerose volte, caratteristica, comunque, non rara dei briganti dell’aretino .
Di professione era registrato nel certificato penale conservato presso l'Archivio di Stato di Arezzo, come muratore e imbianchino, ma in realtà il suo vero mestiere fu sin dall'adolescenza quello di ladro di strada e rapinatore o, per usare un termine in voga nelle aule dei tribunali nel secolo scorso, quello di "grassatore".

Gnicche era un furfante viziato, senza voglia di lavorare, amante dell'osteria, del gioco e delle carte (il coltello di Gnicche è conservato nella casa di una nobile famiglia a Cortona: perché è là? Perché amava andare a giocare a carte con qualche nobile e solitamente teneva il suo coltello sotto il tavolo per eventuali difese. Una sera mentre stava giocando in questa casa Gnicche disse al nobile di essere un gentiluomo e un uomo d'onore. Così glielo dette per dimostrargli che non aveva paura di lui), violento e prepotente, tanto che ancora oggi ad Arezzo si usa dire "Sei peggio di Gnicche!".

Ecco alcuni episodi particolari che testimoniano del suo carattere e del contesto nel quale si forma, condizionando la sua personalità. Nel 1866 il fratello Giovanni venne condannato, per omicidio, a otto anni, pena che scontò interamente nelle carceri di Volterra, in pratica sarà rilasciato solo dopo la morte di Federigo avvenuta nel marzo 1871. Nello stesso periodo, ossia la metà degli anni sessanta, Donato, il maggiore dei fratelli Bobini, cercò di accrescere i magri proventi dell’attività bracciantile lavorando come custode della casa di prostituzione della città di Arezzo, luogo, per altro, assiduamente frequentato anche dagli altri due fratelli.

Sul finire del 1868 Federigo venne nuovamente incarcerato, accusato di furto e violenza pubblica continuata; scontò sei mesi ed uscì il 10 marzo del 1869, appena prima che divenisse esecutiva una condanna ben più lunga, otto anni, che gli venne così combinata in contumacia, costringendolo definitivamente alla vita di macchia; fino a quel momento, infatti, non disdegnava di tornare, nottetempo, alla propria abitazione del sobborgo S. Croce, premurandosi di staccare con le proprie mani gli avvisi ufficiali di sentenza che i carabinieri affiggevano sulla sua porta di casa.
Cresciuto e formatosi in tal modo, Bobini, poco più che ventenne, non teneva ormai in nessun conto le possibili conseguenze delle proprie azioni. Il 6 novembre 1869 venne sorpreso dai carabinieri a casa della fidanzata Borghesi Francesca, presso S. Firmina; per fuggire si portò sul tetto dell’abitazione e sparò alcuni colpi di fucile colpendo mortalmente il militare Luigi Gnudi, ventiquattrenne.
Commise così il suo primo omicidio. La mattina del 20 novembre 1869, dunque in pieno giorno, sulla via che unisce Cortona a Bettolle, assalì un povero bracciante, Federigo Bonini, perquisendolo violentemente; trovatolo provvisto di niente, lo costrinse ad attendere con lui, sotto il ponte detto “del barcone”, l’arrivo di un altro malcapitato, Domenico Zolfanelli, che venne colpito al volto ripetute volte e derubato di settanta lire e di un fucile. In quella circostanza, fu suo occasionale compagno di grassazione Claudio Nozzi, detto baffino.
La mattina del 17 agosto 1870, incontrò sul ponte alla Chiassa, poco fuori Arezzo, Pasquale Piantini; gli chiese chi fosse e cosa facesse, ma ottenne uno sgarbato invito a non occuparsi di tali questioni. Irritato per la mancanza di rispetto sparò due colpi di fucile al volto ed alla spalla del Piantini, non uccidendolo per puro caso, ma sfigurandogli il viso e ferendolo. La sera del 3 ottobre, sorpreso nel sonno in una capanna, venne nuovamente arrestato. Istruendo un grande processo a suo carico, i giudici lo interrogarono varie volte a proposito di furti e complici. Tuttavia la notte del 17 dicembre del medesimo anno inscenò la fuga, incrociando i propri destini con altri noti briganti come il Vettori ed il Rossi. Annunciò al giudice la sua intenzione di fuggire con una lettera, scritta usando il proprio sangue come inchiostro.
Era galante e gentile verso le donne, sempre alla loro caccia nei paesi dell'aretino, dove aveva diverse amanti gelose tra loro.
Gnicche era considerato un grande ballerino e non perse mai l'abitudine di ballare. A quel tempo era costume andare a ballare ai giardini del Prato dove era molto conosciuto, così in una piccola strada egli incontrò una donna e le disse: "Sono Gnicche, non dire niente e dammi i tuoi vestiti!". La povera donna scappò senza i suoi vestiti e molte persone pensarono che fosse pazza. Gnicche trascorse la notte a ballare vestito da donna!

Tra i malfattori dell'epoca si conquistò la fama di una specie di Robin Hood nostrano ed anche tra il popolo in un momento di lotta disperata e accanita contro il potere, divenne il simbolo del giustiziere, il bandito gentiluomo che rubava ai ricchi per donare ai poveri, insomma quasi un eroe.
L'aneddotica sul suo conto non può essere del tutto inventata e probabilmente Gnicche giustificò con alcune sue azioni questa fama di protettore del popolo contro l'ordine costituito ed il potere usurpatore, ma in effetti rimase un bandito, un violento e un assassino.
L'eleganza nel vestire, le armi raffinate che portava (doppietta, revolver a tamburo e pugnale), i suoi successi con le donne, la sua spavalderia, i suoi famosi e romanzeschi nascondigli per la campagna toscana, il sentimento dell'onore ancorché malinteso, furono i suoi più appariscenti connotati e tutto ciò contribuì in maniera determinante a quel mitico alone di bandito gentiluomo che l'immaginario del popolo creò intorno alla sua figura.

La sua fama si accrebbe dopo che, arrestato una prima volta e condotto nelle carceri di Arezzo (a quell'epoca situate nel Palazzo Pretorio oggi adibito a Biblioteca), riuscì corrompendo un secondino a fuggire in modo rocambolesco.
Ancor di più la fantasia popolare lo vide come chi era riuscito a beffarsi dell'autorità dello Stato, a ridicolizzare l'imponente spiegamento di forze adoperato per catturarlo.
Riguadagnata la libertà, Gnicche scelse di rimanere nei luoghi del circondario di Arezzo perché voleva vendicarsi di chi riteneva lo avesse tradito, perché voleva rimanere vicino alle sue donne e perché in questi luoghi, che conosceva come le sue tasche, sapeva muoversi agevolmente, aveva connivenze di ogni genere ed era temuto e rispettato da tutti.

Gnicche continuò la sua carriera di bandito, si macchiò di altre rapine e di odiosi omicidi a Sargiano (un uomo) e nel cortonese (una donna a Creti) fino a che la notte del 14 marzo 1871 i carabinieri, circondato il casolare dove si era nascosto a passare la notte, nei pressi del Tegoleto, lo uccisero con una fucilata alla schiena mentre cercava disperatamente di darsi alla fuga.
Sul rapporto dei carabinieri che hanno compiuto l’operazione, si può leggere:
<Passavamo verso l’ora suddetta [le nove di sera n.d.a.] presso la casa del Casucci, allorché fiutammo odore di carne fritta, per cui l’appuntato Mongatti lasciati fuori appiattati gli altri due militari, entrò nella casa la cui porta era socchiusa, e vide il vecchio Casucci che cucinava una padella di fegato, cibo veramente troppo di lusso per i mezzi suoi ed anche eccedente ai bisogni della famiglia. Scambiate poche inutili parole il Mongatti salutò il Casucci fingendo di partirsene per la sua stazione, ma invece andò ad appiattarsi in una attigua stalla. Subito dopo il vecchio tentò di uscire dalla casa, ma egli glielo impedì facendolo rientrare.
Pochi minuti dopo sovvennero la moglie del Casucci e la figlia Palmira, le quali appena entrate in casa tentarono di nuovo di uscirne; ma esse furono fatte rientrare. La moglie del Casucci disse allora che voleva solo andare dietro il pagliajo per un suo bisogno e dopo sarebbe andata tosto a letto. Ad arte però tossì due o tre volte come volesse dare un segno di convenzione e fu allora che il Mongatti insospettitosi di più, tanto più se si considera che essa, venuta dal di fuori minuti prima non poteva aver bisogno di andare dietro al pagliajo per cose naturali, epperciò le intimò tosto di rientrare colla figlia in casa.
Dopo un dieci minuti circa comparve d’improvviso il noto malandrino Bobini armato di tutto punto; cioè carabina a retrocarica a due canne e revolver a sei colpi. Vederlo ed avventarglisi fu per il Mongatti un atto solo afferrandolo al petto. Pronti lo strinsero pure gli altri due suoi colleghi e lo gettarono a terra e dopo accanita lotta riuscirono ad ammanettarlo. Nella lotta il Mongatti per morsicatura dell’assassino ebbe tronca la prima falange del dito indice della mano sinistra e gli altri due riportarono alcune sgraffiature e morsicature alle mani di poca entità.
Fattolo rialzare ed avviatosi verso la caserma di Badia al Pino, egli giunto a mezza strada, ad un tratto spiccò un salto oltre la siepe laterale al fosso e velocissimo si diede alla fuga. Inseguitolo il Mongatti gli sparò un colpo di carabina, ma non colpì, più fortuna di lui il carabiniere aggiunto Dilaghi dopo esplosa la carabina gli assestò tre colpi di revolver cogliendolo alle reni in modo da farlo cadere esanime al suolo. Trasportato nella caserma di Badia al Pino, egli prima di giungervi, spirò. Perquisitolo, oltre le armi già dette, gli sequestrarono nelle tasche un portafogli contenente 160 lire, uno specchietto, un fischietto ed una chiave per scaricare la carabina.>

Il nostro "poeta contadino" e cantastorie tra i più richiesti del tempo, Giovanni Fantoni da Ponte Buriano, ci descrive la morte di Gnicche a soli 26 anni, in maniera tanto romanzesca quanto ingenua e commossa nella sua ariostesca ballata in ottava rima, scritta immediatamente dopo la sua morte nello stesso anno 1871. La sciagurata vita di Federigo Bobini era finita, ma Gnicche entrò subito nella leggenda.
I cantastorie ne cantarono le avventure nei giorni di mercato ed alle fiere paesane fino a qualche decennio fa e i vecchi contadini raccontavano la sua storia nelle feste e nelle veglie, ai figli e ai nipoti.
Nella memoria del popolo Gnicche ebbe buon gioco a divenire subito un personaggio mitico e favoloso. Nella sua storia ci sono tutti gli ingredienti per colpire la fantasia della gente, a quei tempi per la maggior parte povera e ignorante, ingenua e bistrattata: ci sono l'amore e la morte, il tradimento e l'amicizia, la vendetta e il coraggio, la sfida e le beffe.
Gnicche impersonificò colui che non subiva, che si era ribellato alla sua misera condizione sociale, che era vissuto un giorno da leone. Diventò il vendicatore dei torti subiti, l'eroe sprezzante del pericolo che sfidava tutto beffardamente, l'inafferrabile Robin Hood che si muoveva tra i boschi e la campagna toscana libero come un uccello.
Del mito di banditi dello stesso calibro ed a lui contemporanei si impadronirono in altre realtà come l'America, i mass media che tanto hanno raccontato delle gesta dei vari Jesse James o Billy the Kid. Ma in America tutto è proporzionato alle sue grandi dimensioni. A casa nostra, dopo che le campagne si sono spopolate per l'ineluttabile sviluppo dell'industrializzazione e tutta una cultura contadina è scomparsa e con essa il cantastorie, vecchie storie di personaggi locali vengono dimenticate.
In una nuova realtà caratterizzata da ritmi di una vita infinitamente più veloce e dal bombardamento continuo di notizie e informazioni di ogni genere propinateci dalla TV ed altri mass media, immersi nel panorama di avvenimenti mondiali, abbiamo poco tempo e disponibilità per rispolverare piccoli scorci del nostro passato e una vecchia storia dal nostalgico sapore di romanzo d'appendice, la storia del brigante Gnicche, rischia di cadere nell'oblìo anche se ancora oggi il ricordo delle gesta di Federigo Bobini detto "Gnicche" vive nella memoria collettiva del capoluogo aretino attraverso la presenza di un ristorante chiamato “La torre di Gnicche” situato nella centrale piazza Grande, simbolo del capoluogo provinciale, ed anche grazie alla presenza di una vecchia torre diroccata che domina il panorama alla periferia nord della città, detta appunto “torre di Gnicche”, che fu a lungo un rifugio del Bobini secondo la voce popolare.
Queste pagine sono perché ciò non avvenga, è un desiderio di riappropriarci della nostra identità locale, per un tuffo in una dimensione scomparsa, uno "spizzico d'Arezzo".
Tratto da una tesi di laurea |
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Giovanni Fantoni |
Delitti, arresto e morte di Federigo Bobini detto Gnicche
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Se Apollo assisterà la mente mia,
Onde possa cantar d'ottava rima,
E con l'aiuto di Gesù e Maria
Arriverò dell'argomento in cima;
Spero non sarà tempo butto via,
Benché storie non fei, questa è la prima;
Vita e morte racconto e vi raffino
D'un giovane scorretto il rio destino.
Federico Bobin, da piccolino
Appunto principiava a camminare;
Di campagnuolo si fe' cittadino
E col padre dentro Arezzo, andiede a stare.
Questo ragazzo fa come lo spino,
Che nasce aguzzo per voler bucare,
Porta in tasca un coltello fatto a cricche,
Per soprannome fu chiamato Gnicche.
Se lo tocchi però ti dà le chicche,
E a' quindici anni ancora non è giunto
Vuol bene a fiori, quadri cuori e picche,
E per il giuoco dorme poco o punto,
Vestir vorrebbe da persone ricche;
E' ghiotto quanto il gatto intorno a l'unto
Tu vuoi star tanto ben, ma che arte fai?
Manuale e scaccin da paretai.
Non ha da fare e non lavora mai...
Gnicche si mette ozioso per Arezzo;
Un dì entrò in casa a certi bottegai,
Prese a una donna quattro anelli e un vezzo,
Oure che il corpo non patisca mai...
Per i vizi lo vende a poco prezzo,
Lo giuoca, fa di mezzo, e poi di tutto,
E in breve resta il portafogli asciutto.
Gnicche senza quattrini come è brutto!
Né per farli si adatta alle faccende,
E piglia al padre dei sudori il frutto.
E altre robe di casa gliele vende;
Vede al cattivo sempre più si è butto
Il padre, e fortemente lo riprende,
E Gnicche vuol ragione, e ci quistiona,
E invece di tacere... lo bastona.
L'accusa al Tribunale, e non canzona,
E lo fa condannar per quattro mesi;
Lui fugge la giustizia e va a Cortona,
E si butta bandito in quei paesi.
E là ferisce più d'una persona,
Ha revolver, schioppo ed altri arnesi,
Sempre lo cerca più la Polizia;
Con altri malfattor va in compagnia.
Sempre rigira lì a Santa Maria,
Santa Firmina, San Zeno e Sargiano,
L'arrestano i soldati per la via:
Pare un leone, non par più un cristiano:
Dove chiappa, la pelle porta via,
E li ferisce e scappa lor di mano,
Sicché li rispettò come somari,
Poi se ne andò a Castello e verso Anghiari.
Lui va sempre dai ricchi e vuol denari,
In Chiana nel Valdarno e in Casentino,
Chi a lui resiste non la cava pari,
Perché gli fa baciar qualche santino.
Benché cattivo ha degli amici cari;
Spesso ritorna all'Aretino,
E più volte ne andò ben monturato
Alla commedia e a passeggiare al prato.
Una donna spogliò lo sciagurato,
La strapazzò, ma non le fe' ferita;
Tutti i panni di lei si fu indossato.
Per andare a ballare fece partita.
Dicevan tutti: -Una donna è impazzita!
Fuggiva a casa ignuda e impaurita,
Non può parlare, ché gli manca il fiato,
E dopo disse: -Gnicche m'ha spogliato...
Un giorno in un caffè va lo sfrontato
E Gnicche, vi trova il Sindaco a sedere,
Lo saluta e gli va al destro lato,
Mi conosce? Chi son lo vuol sapere?
Fo il sindaco ancor'io molti ho tassato
E più di lei io faccio il mio dovere,
Perché ha tassato ancor la bassa gente,
Ed io tasso i signori solamente!...
Gnicche lo saluta e parte prestamente,
E il Sindaco gli disse: -A rivederlo!
E poi domanda a tutta quella gente
Se sia sindaco proprio quel bordello.
Quell'è Gnicche, essi disser, certamente,
Sor Sindaco, non guardi che sia bello,
Resta stupito, e gli cadde la tazza,
E dopo Gnicche fuggì a Parigi, in Piazza.
Che cosa fa cotesta testa pazza
Va alle Camere, su da quei signori,
Lo salutan tutti, e li ringrazia,
Non so se fe' interessi e tornò fuori.
Poi va in casa di un prete e non l'ammazza,
Gli disse: -Lei è il più potente fra i Priori,
Io son Gnicche, e di si mi deve dire,
Da lei stasera... voglio mille lire!
Non ho neppure un soldo, prese a dire,
Mio caro Gnicche, non l'avere a sdegno,
Fra tre giorni li avrò, potrai venire.
Disse Gnicche: -Mi dia la serva in pegno!
E il Prete: Piuttosto vo' morire,
Ma la mia serva non te la consegno!
In tutti i modi il caso è disperato,
Gli contò i franchi, e via l'ebbe mandato.
A veglia vuol andar, ch'è innamorato
Di una ragazza di Santa Firmena,
Che a sue passioni sempre sfogo ha dato.
Fu avvisata la forza e lo incatena.
Un contadin che il vino avea alloppiato,
Dormia là in campagna dopo cena,
E Gnicche non poté mettersi al trotto,
E lo legano in sedici o diciotto.
Gli par mill'anni menarlo di botto
In carcere fra tanti altri birbanti,
Chi di sopra lo tiene, e chi di sotto,
Chi lo regge di dietro e chi davanti.
-Eccolo qua il nostro patriotto!
Allor dissero ad Arezzo tutti quanti:
In carcere fu messo da un'armata,
E la seduta tosto è preparata.
Per la prima sentenza che fu data
Messo in casa di forza per sett'anni,
Poi c'è un'altra condanna separata
Per motivo d'un furto ed altri danni;
Poi c'è quella che mai non ha scontata,
Che ai soldati strappò la pelle e i panni,
Infine piccolezze a centinaia...
Guadagnato s'è il pan per la vecchiaia!
Non c'è persona che un altro non paia,
V'era una guardia detto il Secondino,
Gnicche che parla piano e non abbaia,
Disse: -Non hai la palla d'un quattrino,
Se mi apri tu l'avresti quasi a staia;
Alfin lo compra e gli apre l'usciolino
E gli s'affila dietro anche i compagni;
Non si sa il Secondin quanto guadagni.
Non vi so dir se battono i calcagni!
Prestamente scavalcano le mura
Acciò del Secondin nessun si lagni.
Di non abbandonar promette e giura
Sta tre dì tra le macchie ed i castagni,
Forse avrà fatto sacco... e poi assicura
Di scappar ratto per la via più stretta,
E lì pianta i panioni e la civetta.
Al Tribunal ritorna con gran fretta,
Con la speranza d'esser perdonato.
Alle sue scuse non vien dato retta,
Comandan che sia presto carcerato.
E lui di nuovo in ginocchion si getta,
E dice: -Fui tradito ed assaltato!
Contro forza non giova la ragione,
Non è creduto e va in prigione.
E subito s'armaron mille persone,
Perché Gnicche evase dalla gabbia
Chi quà, chi là, soldati a processione,
Per rimetter l'uccello nella gabbia.
Ma di Gnicche dirò la sua intenzione
Che veglia il contadino con gran rabbia.
Dietro ad un poggio con un fucile in mano
Là presso casa sua, sotto Sargiano.
Coi fratelli alla messa va pian piano,
E parenti ed amici un dì in festa
Senton dir: -Ferma là, tristo villano,
E chi non ha che far badi alla testa!
Vedono Gnicche col fucile in mano:
Ognun si dà a fuggir a gamba lesta:
Lo piglia in mira, stringe e bene accende
Lo chiappa con due palle e lo distende.
Rimbuca nella macchina, poi s'intende
Che Gnicche è presso Castel Fiorentino
Va là sotto Cortona a far faccende.
State attenti; dà lavoro al becchino.
Tratta una donna e ci fa le merende.
Un dì gli disse un tal di quel vicino
Non ti fidar di quella donna incinta,
Che per farti cader ti dà la pinta.
Presto la va a trovar con dura grinta,
Le disse: -Chi ti insegna a far la spia,
Donna bugiarda, traditrice e finta?
Le dà un colpo, l'ammazza e poi va via.
Visitò il Tribunal la donna estinta:
Dà ordine ai soldati in ogni via
Sa che Gnicche, le fa sempre più belle:
E gli fan preparar le peggiori celle.
Subito raddoppiò le sentinelle,
Per Gnicche il mare è sempre in gran burrasca.
Lui tira avanti e non teme di quelle,
Non crede esser l'uccello sulla frasca.
E va dicendo: -A chi preme la pelle.
Quest'è lo schioppo e revolver in tasca!
Tacerò se con forza non arrivo,
Quando sarò morto a sangue privo!
Quante son le person più non le scrivo
Morte, ferite e messe in gran paura,
Bensì per chi gli dà non è cattivo:
Le spie le mette tutte in sepoltura.
Povero, disperato e quasi arrivo
(La pera presto cade che è matura)
Pensò fare una cena cheto cheto
In casa di un contadino al Tegoleto.
Tieni sta roba? gli dice in gran segreto,
Ch'io tornerò vicino a mezzanotte,
Stai zitto e quando torni da Oliveto
Fa' che queste vivande trovi cotte!
Bada che il vino non abbia l'aceto,
Perché lo voglio della meglio botte.
Arrosto metterai questi piccioni,
Che si mangi alla barba dei minchioni.
Tre soldati, cercando altri birboni,
La sera, passeggiando in quella parte,
Trovaron certo fumo a strasciconi,
Disse un soldato che era già dell'arte:
-Vediam di questo fumo chi è padroni!
O c'è una cena o giuoco delle carte!
Entra in casa e quel che cercan trova:
Disse dentro di sé: -Gatta ci cova!
A interrogar il contadin si prova:
-Per chi la fate voi questa cucina?
-Vede, li fo star bene e non mi giova:
Per l'opre che verranno domattina!
Il soldato parole non rinnova,
E della scala riprese la cima,
Il contadin vede andar via il soldato,
S'ingegna d'avvisar quel disgraziato.
Il Gendarme nascosto e preparato
Sta nell'ingresso, e due nella capanna,
Esce la madre con la figlia a lato,
Per avvisare Gnicche ognun s'affanna,
Ei tutto ardito gli s'è presentato,
Di ritornare indietro le condanna.
-Fate silenzio e non vi date pena,
Ambedue state in casa a far da cena!
Ecco Gnicche fischiando li s'infrena.
E gli s'avventan come can da presa.
Grida: -Aiuto compagni! ad alta lena
Con pugni e calci si mette in difesa
Su ogni soldato, picchia Gnicche, e mena
Trecento metri li trasporta per la presa.
Ripete: -Aiuto, amici, a questa guerra!
Un soldato la bocca a Gnicche serra.
Ma nell'ammanettarlo esso si sferra
E nella mano gli ci attacca un morso;
Il soldato si svenne e cade in terra,
D'un dito gli mozzò la carne e l'osso.
Da bravo fa, ma chi non fa non erra,
Scappa... poi salta un ponte e salta il fosso;
Ma un soldato gli tira nelle rene,
Gnicche disse: -Bravo hai fatto bene!
Disse Gnicche: -Morir qui mi conviene!
Chiama il soldato con parola umìle:
Ora si credo che la morte viene,
E non giova revolver, né fucile.
Ti lascio l'orologio e tasche piene,
E lo schioppo e revolver e lo stile,
Benché tu m'abbia percosso e ucciso
Ti perdono... e t'aspetto in Paradiso!
Disse il soldato: -Sarà assai indeciso,
Degno tu non sarai del Regno eterno;
San Pietro non vorrà vederti in viso,
Chi sa non ti respinga nell'Inferno,
Perché volesti star sempre diviso
Dalla Legge di Dio e dal Governo!...
E Gnicche muore in pace e ne conviene,
Le promesse al soldato gli mantiene.
A me s'agghiaccia il sangue nelle vene
Quando un cristiano fa codesta morte.
Gnicche disse, spirando in quelle pene;
-Il morire per me sarà una sorte!
Non sò se in ventott'anni fe' mai bene,
Avrà seduta alla Celeste Corte.
Là dove ci conduce l'ozio e il vizio,
Lo vedremo tutti, il giorno del giudizio.
Vogliono gli Aretin che sia indirizzo,
E riportato a Arezzo al Camposanto,
Benché picchiasse tanto a precipizio,
E li facesse già disperar tanto.
Quì fò fine e non porto pregiudizio,
Termino quest'istoria e chiudo il canto,
Se feci sbaglio ognun di voi perdoni,
Son di Ponte Burian, Giovanni Fantoni. |

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